(Contenuto aggiornato al 03/10/2024)
Ad un anno dall’attacco militare di Hamas contro Israele, assistiamo ad un pericoloso quanto interessante evolversi della faccenda, che porta ogni giorno a considerare una diversa valutazione degli eventi in corso, fino a ritenere ufficialmente iniziata la Terza guerra del Libano. In particolare, è da osservare (senza troppe sorprese) lo spostamento dell’attenzione di Tel Aviv da Gaza a Beirut, in un riorientamento degli obiettivi militari che richiede una importante riflessione su diversi temi: il lavoro dell’intelligence, la sovrapposizione degli obiettivi bellici, la destabilizzazione del Libano ed una cascata di effetti secondari in tutto il Medio Oriente.
È opportuno partire dall’evento che da qualche settimana ha dato nuova linfa alla guerra sul fronte nord: l’esplosione coordinata di cercapersone e walkie-talkie appartenenti ai membri dell’organizzazione terroristica di Hezbollah. Nel pomeriggio di martedì 17 e mercoledì 18 settembre, diversi dispositivi personali sono stati fatti esplodere da remoto attraverso un raffinato lavoro di intelligence portato avanti dal Mossad, che ha causato la morte di circa 30 persone e svariate centinaia di feriti. L’attacco è avvenuto grazie alla manomissione degli apparecchi diverso tempo prima che venissero consegnati ai miliziani di Hezbollah, dimostrando la capacità di Israele di organizzarsi nel lungo periodo e di programmare con lungimiranza attacchi mirati, in uno scenario che non pare avere precedenti. Tuttavia, il colpo da maestro di Israele non può che lasciare spazio a interrogativi che sorgono spontanei, che pongono l’accento tanto sulle attività stesse del Paese quanto sulle ricadute future di tali azioni.
Il primo interrogativo riguarda le capacità di Israele di compiere operazioni di intelligence mirate a colpire obiettivi specifici: le esplosioni programmate della scorsa settimana hanno dimostrato che il Mossad ha le capacità per organizzare attacchi al limite del cinematografico, che normalmente penseremmo possibili solo in film di spionaggio nemmeno troppo realistici. Ma se queste capacità sono provate e comprovate, non ci si può esimere dal domandarsi: è davvero necessaria l’occupazione militare della striscia di Gaza? Era davvero necessario rispondere all’attacco di Hamas con una operazione militare in piena regola in un contesto urbano che avrebbe inevitabilmente causato l’esodo dei civili palestinesi e la morte di diversi innocenti? È da considerare, ovviamente, che si parla di due situazioni ben differenti: non sappiamo se i miliziani di Hamas fossero in possesso della stessa partita di dispositivi usati da Hezbollah e, a questo, si aggiunge l’elemento estremamente emotivo dell’aggressione subita il 7 ottobre: un attacco armato in piena regola, lontano dalla regia terroristica a cui erano soliti fare ricorso. Il desiderio di vendetta e di giustizia, alimentato dalle manifestazioni festanti esplose in tutto il Medio Oriente, ha infine indotto Tel Aviv a optare per una operazione militare che, a dirla tutta, ancora oggi non vede la luce in fondo al tunnel, a causa di obiettivi sfumati e vaghi, che permettono al presidente Netanyahu di prolungare la durata delle operazioni (ed indirettamente, anche del suo mandato, evitando le vicende giudiziarie che pendono sul suo capo).
Il secondo interrogativo si concentra invece su un evento ancora più straordinario: la morte del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in seguito ad un bombardamento mirato contro il quartier generale a Beirut del “Partito di Dio”, subito seguita dalla scomparsa di Fateh Sherif, capo delle forze di Hamas in Libano. Anche in questo caso, l’operazione è stata possibile grazie alle condizioni sul campo: Nasrallah era fisicamente presente sul suolo libanese, permettendo all’’IDF di colpire con un attacco mirato. La morte di Nasrallah è solo l’ultima di una lunga serie di attacchi mirati che negli ultimi mesi ha portato alla decimazione della leadership di Hezbollah, nel tentativo di rendere l’organizzazione debole e difficile da controllare. In questo senso, si iscrive la questione della successione alla segreteria del Partito di Dio, che porta il Medio Oriente in una nuova fase. Naim Qassem, numero 2 di Hezbollah, ha preso temporaneamente in mano le redini del partito, in attesa della nomina ufficiale del successore; tuttavia, nel suo primo messaggio ai miliziani, è apparso evidentemente provato ed impacciato, e non sono pochi coloro che dubitano che possa essere all’altezza del suo predecessore. In tal caso, si potrebbe certamente pensare ad un indebolimento di Hezbollah, ma sarebbe troppo sperare nel suo collasso. Pertanto, la nomina di un’altra personalità è da ritenere quasi certa ed il nome di Hashem Safieddine per ora svetta sugli altri.
Spostandoci dai confini libanesi, il pensiero non può che andare all’Iran, vero burattinaio e finanziatore delle organizzazioni terroristiche disseminate per tutto il Medio Oriente. In uno scambio pubblico di messaggi rivolte ai popoli delle rispettive nazioni, Netanyahu e Khamenei hanno dichiarato la stessa cosa in linguaggi diversi: il primo ha promesso la liberazione degli iraniani dall’oppressione del regime teocratico, il secondo ha garantito l’eliminazione della minaccia ebraica al popolo palestinese. Messaggi certamente non concilianti che lasciano spazio a scenari incerti: Teheran ha prospettato l’invio di propri militari regolari sul suolo libanese, al triplice scopo di prevenire un attacco israeliano, rafforzare la presa di Hezbollah sul territorio e prevenire la perdita di uno spazio strategico per l’Iran. Che fosse vera o no l’idea di un invio di truppe iraniane, ancora una volta Israele ha bruciato i tempi: nella notte fra il 30 settembre ed il 1° ottobre, le forze dell’IDF hanno attraversato il confine e sono entrate in territorio libanese con il chiaro obiettivo di respingere le forze di Hezbollah a nord del fiume Leonte (o Litani) e distruggere tutte le basi operative presenti nel sud del Libano; il fine ultimo dell’offensiva di terra dovrebbe essere quello di permettere il rientro della popolazione israeliana nelle abitazioni sfollate del nord, contromisura adottata all’inizio della guerra a Gaza proprio per paura di un attacco coordinato dal Libano. L’esercito regolare libanese ha abbandonato i propri appostamenti a sud, rifiutando quindi un confronto diretto con l’IDF; tuttavia, ciò non giustifica la mossa di Tel Aviv, che anzi lascia ampi dubbi sulla liceità dell’operazione. Intanto, l’Iran non ha fatto attendere la sua risposta: nel pomeriggio del 1° ottobre, 160 missili sono stati lanciati da basi iraniane con obiettivo Israele, attacco programmato per vendicare la morte di Nasrallah. Nelle stesse ore, un attentato a Giaffa ha sparso il panico nella città e tolto la vita a sei cittadini israeliani. Stando ai report di Tel Aviv (e quindi da prendere con le pinze), i vettori iraniani non avrebbero provocato morti nello Stato ebraico grazie all’impiego di sistemi di difesa Arrow2 e Arrow3, capaci di calcolare la traiettoria dei razzi ed abbattere in volo la maggior parte di essi, pur registrando danni presso siti militari. Ciò non significa che non ci siano vittime: stando alle stesse fonti, un missile intercettato sarebbe caduto in Cisgiordania, uccidendo un cittadino palestinese, mentre altri razzi sarebbero esplosi in fase di lancio, uccidendo cinque addetti iraniani. All’intercettazione, avrebbe partecipato anche forze statunitensi presenti in loco e, in piccola misura, anche forze giordane (presso la capitale Amman). Al termine dell’attacco, Khamenei ha fatto sapere che la risposta iraniana era conclusa ed ha avvertito Tel Aviv che qualunque risposta sarebbe stata punita con un attacco ancora più pesante; fonti di intelligence fanno però sapere che Israele sarebbe già pronta a colpire raffinerie e impianti nucleari iraniani nei prossimi giorni.
(A cura di Gabriele De Fazio)