Il Bangladesh ha recentemente attraversato una fase politica molto turbolenta. La premier Sheikh Hasina è stata costretta alle dimissioni dai militari. Successivamente si è dovuta rifugiare in India per sottrarsi alle violenze dell’esercito, che ha prontamente sciolto le camere e posto il premio Nobel Muhammad Yunus a capo di un governo di transizione verso nuove elezioni. Questo instabile quadro politica indica come una crescita economica impetuosa a discapito dei diritti nasconda sempre una situazione sociale fragile e pronta ad esplodere.
Per capire come si sia giunti a questo punto, urge ripercorrere dall’inizio la storia di questo piccolo e popoloso stato del subcontinente indiano. Il Bangladesh ottenne la sua indipendenza nel 1971, a termine di una sanguinosa guerra contro l’allora Pakistan Occidentale e con il supporto dell’Unione Indiana. Da allora è stato è un continuum di violenza politica e repentini rovesciamenti dei governi in carica: fra 1975 e 2011 si sono susseguiti ben venticinque colpi di stato. Alcuni di questi hanno avuto successo, altri no.
Protagoniste di queste vicende sono state le due famiglie dominanti della scena politica bangladese: gli Sheikh della Awami League (una sorta di partito socialdemocratico laico e nazionalista) e gli Zia del Bangladesh Nationalist Party (conservatore e islamista). I rispettivi capostipiti sono morti di morte violenta e la successione alla guida del partito è stata presa dalle donne forti delle due dinastie: l’ex premier dimissionaria Sheikh Hasina è figlia di Sheik Mujibur Rahman, padre della nazione bangladese e assassinato nel 1975. Invece, l’attuale capo dell’opposizione è Khaleda Zia, moglie del generale Rhaman Ziamur, ucciso nel 1981. Il compito di liquidare fisicamente o politicamente i leader di turno è sempre toccato all’esercito, de facto il supervisore e arbitro della politica interna bangladese.
Dall’assunzione del potere da parte di Sheikh Hasina nel 2009, il Bangladesh ha conosciuto una fase di sostanziale stabilità. Ciò ha favorito una crescita economica esponenziale del PIL e il miglioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di bangladesi. Inoltre, negli ultimi quindici anni il Bangladesh si è affermato sui mercati internazionali come terzo esportatore globale nel settore dell’abbigliamento, rafforzando le relazioni economiche e politiche coi potenti vicini Cina e India, oltre che con le altre potenze del mondo.
La modernizzazione non ha però eliminato retaggi di un passato postcoloniale. Un esempio sono le contestate quote riservate ai Freedom Fighter (i combattenti per la resistenza nel 1971) per l’assunzione nella pubblica amministrazione. Oggi al trenta per cento (in passato erano addirittura al cinquantasei per cento), questa quota è stata l’origine delle recenti proteste dei movimenti studenteschi, che rivendicano un sistema più meritocratico. La contestazione si è presto allargata contro la crescente politica repressiva, l’uso spregiudicato della magistratura e la difficoltà a trovare nuovi posti di lavoro, segnalando delle difficoltà non solo politiche, ma anche sociali, del Bangladesh odierno.
Viste le condizioni, di certo il governo di transizione militare guidato dall’economista premio Nobel Muhammad Yunus non ha un compito facile. Sembra un’impresa titanica pacificare un paese in cui la lotta politica avviene attraverso continui putsch e in cui il confronto religioso spesso implica bagni di sangue. Tuttavia, Mohammed Yunus unisce militari e studenti in protesta come guida perfetta per la transizione del Bangladesh verso una nuova fase della sua storia: è sempre stato molto attento all’esigenze degli ultimi ed è un grande conoscitore della finanza internazionale. Un altro grande banco di prova per il governo di Muhammad Yunus sarà la questione religiosa. I contrasti in India fra una maggioranza hindu sempre più ideologizzata dal premier Modi e la minoranza musulmana si riverberano anche nel Bangladesh: il partito di Hasina accusa l’opposizione di aver contribuito alla crescita del fondamentalismo islamista nel paese. Questa situazione rappresenta un grave pericolo per Modi, sempre più intenzionato ad assumere il ruolo di padre della patria e a fare dell’induismo religione di riferimento per l’intera nazione. La forte alleanza fra Hasina e Modi garantiva al premier indiano la sicurezza sul confine orientale contro eventuali rivolte musulmane. Un intreccio di fattori geopolitici e religiosi che spiega perché Hasina abbia scelto proprio l’India come rifugio dopo le sue dimissioni.
(A cura di Leone Ronchetti)