Dopo la morte di Ebrahim Raisi, ex presidente della Repubblica Islamica e soprannominato il macellaio di Teheran, insieme agli altri gerarchi del regime degli ayatollah in un incidente aereo nel 19 maggio scorso, su cui ancora ci sono molte aree grigie, si sono avviate in Iran le procedure per eleggere il nuovo presidente. Queste si sono concluse il 5 luglio col ballottaggio tra Saeed Jalili e Masoud Pezeshkian e la vittoria di quest’ultimo. In questo modo si è posto fine all’ennesimo “circo delle elezioni”, termine coniato da Reza Pahlavi e ormai entrato nella letteratura politica iraniana per riferirsi alle elezioni sotto il regime degli ayatollah.
D’ora in poi si sentirà parlare spesso di Pezeshkian come di un “moderato” o di un “riformista”, ma lui non è né l’uno né l’altro; per chi scrive egli non rappresenta nient’altro che un servitore del Leader Supremo. Come disse una volta l’ex presidente della Repubblica Islamica M. Khatami: “Nel sistema politico della Repubblica Islamica, il presidente non è altro che il segretario del leader supremo.”
Per comprendere meglio il senso della precedente citazione, occorre sapere che il sistema politico della Repubblica Islamica è incentrato sulla carica del Leader Supremo, chiamato anche la Grande Guida della Rivoluzione, ruolo attualmente ricoperto da Ali Khamenei dal 1989 succedendo a Khomeini. Essa è una carica a vita ed è la massima autorità religiosa, giudiziaria, militare, politica ed amministrativa del paese e viene eletta dall’assemblea degli esperti. Il Supremo Leader ha il diritto di veto praticamente su tutto e può intervenire direttamente in qualsiasi affare di stato a qualsiasi livello, dalla scelta del nome di una piazza nella capitale, sino ad imporre il divieto all’importazione delle medicine made in USA nel paese.
Nonostante ciò, la Repubblica Islamica continua a vedere nell’esercizio del voto un segno della sua legittimità. Come ha detto l’ultimamente Ali Khamenei: “Più la partecipazione popolare sarà elevata, più il sistema della Repubblica Islamica sarà in grado di realizzare la sua parola, le sue intenzioni ed i suoi obiettivi, sia sul piano interno a livello strategico.”
Per realizzare quest’ambizione, il regime degli ayatollah è accusato di usare qualsiasi metodo: dal voto forzato per gli impiegati dello stato, ai grandi imbrogli elettorali. Chi sostiene queste accuse argomenta puntando il dito alle cifre e alle percentuali di partecipazione alle elezioni dichiarate dalle autorità del regime. Questi numeri non soltanto non sembrano coincidere con le testimonianze oculari e le immagini uscite dal paese di migliaia di seggi elettorali deserti (bisogna sapere che in Iran non esiste la libertà di stampa; nessun giornalista o ente indipendente quindi, che sia locale o straniera, ha la possibilità di effettivamente verificare i dati trasmessi dalle autorità del regime sulle elezioni), ma spesso sono incongruenti tra di loro. Nel primo turno, ad esempio, tutti e quattro i numeri di voti dei candidati più il numero dei voti annullati erano divisibili per tre, un fenomeno così raro che, secondo gli esperti di matematica, potrebbe avere una probabilità pari al 0,039% di accadere.
Questo ha fatto pensare ad alcuni analisti che le autorità del regime avessero semplicemente moltiplicato per tre tutti i numeri per gonfiare i risultati. Del resto, da una prospettiva democratica, l’unica questione riguardante le elezioni è la verità sul numero degli elettori. Possiamo provare a indovinare, ma all’avviso di chi scrive non possiamo fidarci dei numeri ufficiali, perché il regime li ha sempre manipolati. L’unica speranza è che prima o poi alcuni dissidenti nascosti all’interno della burocrazia facciano trapelare la verità. Tuttavia, a chi scrive genera molta amarezza vedere pubblicati negli articoli, anche su testate importanti, esattamente i numeri e le cifre fornite dalle autorità della Repubblica Islamica, senza però un minimo di approfondimento.
Se invece si considerano i candidati, non esisteva scelta migliore tra i due arrivati al ballottaggio. Entrambe le opzioni erano più o meno le stesse; del resto, il presidente della Repubblica Islamica non ha alcuna influenza sulle politiche del paese in quanto le politiche fondamentali del potere, come il programma nucleare o gli interventi delle Guardie Rivoluzionarie nei paesi vicini all’Iran, non rientrano nell’ambito di competenza del presidente. Lo stesso vale per la questione dell’hijab obbligatorio.
Inoltre, se si guarda ai mandati passati dei presidenti cosiddetti riformisti o conservatori, si vedrà che erano generalmente simili. La società iraniana lo ha capito e non ha preso più sul serio tutti gli eventi, la pubblicità e la propaganda del regime, soprattutto sui social network. Se fossimo andati in Iran e avessimo fatto un giro per le strade, soprattutto nelle province, avremmo visto che delle elezioni non si parlava praticamente mai. I dibattiti televisivi tra i candidati venivano percepiti con rabbia e ridicolizzati. Pertanto, l’opinione pubblica non fa alcuna distinzione tra riformisti e conservatori.
Pezeshkian, infatti, non ha nulla da invidiare a Saeed Jalili in termini di repressione, dato che egli stesso ha avuto un ruolo importante negli anni 80 nella repressione delle università e nella separazione tra uomini e donne negli studi di medicina all’università.
In aggiunta, la storia ci insegna che alcuni governi riformisti si sono dimostrati addirittura peggiori e più brutali di quelli conservatori. Fu sotto la presidenza di Khatami, nel luglio 1999, che ebbe luogo la repressione dei dormitori dell’Università di Teheran. Ad oggi ci sono ancora studenti scomparsi, le cui famiglie non sanno se siano morti o noi. Allo stesso modo, non ci si può dimenticare della repressione delle proteste nel novembre 2019, di cui ancora non si conosce il numero esatto di persone uccise nelle proteste, durante le quali la chiusura di Internet non ebbe precedenti in Iran, e forse nel mondo.
Se l’immagine di questi governi può differire, è avviso di chi scrive che la loro fondazione politica sia identica: entrambi sono fedeli alla legge islamica ed il loro fine non è altro che salvaguardare il regime. In effetti, l’economia è una delle questioni più importanti in Iran perché influenza direttamente la vita di ogni individuo. La povertà è diventata una piaga che si è diffusa nella società negli ultimi anni, tanto che gran parte della popolazione non riesce più a soddisfare i propri bisogni, per non parlare dell’aumento dei prezzi dei medicinali. Il problema è che anche sul piano economico la popolazione ha già sperimentato le promesse non mantenute del governo. Sotto Hassan Rouhani, che aveva il sostegno dei riformisti, il tasso di inflazione è esploso.
Nonostante la censura di Internet, le persone hanno accesso a tutte le informazioni e osservano i risultati ed i numeri. Ai loro occhi una presidenza riformista o conservatrice non fanno più alcuna differenza pratica; ciò è tanto più vero se si considera che il candidato Massoud Pezeshkian ha già indicato che seguirà le politiche economiche definite dal Leader.
Per chi scrive, il popolo iraniano ha espresso ancora una volta un no chiaro e intransigente ad Ali Khamenei e al circo elettorale della Repubblica Islamica. Qualunque numero dichiarato della partecipazione al voto non sarà in grado di superare la realtà del malcontento che la nazione iraniana ha verso il regime. L’elezione di Pezeshkian non salverà questo regime dai suoi crescenti scismi, dal suo inevitabile collasso e dalla sicura vittoria del popolo iraniano. Personalmente, si invitano i paesi occidentali a non lasciarsi ingannare dall’abito di “riformista” o di “moderato” del nuovo presidente dell’Iran; sarebbe un’offesa sleale al movimento di liberazione in corso nel paese ed una grave abdicazione alla loro leadership morale.
((Articolo realizzato in collaborazione con Iranian Liberal Students)