Hezbollah minaccia Cipro e l’UE

da | Giu 30, 2024 | Politica Internazionale

Lo scontro armato tra Israele e le milizie di Hamas ha portato ad una prevedibilissima polarizzazione del dibattito sul tema: proteste e manifestazioni filopalestinesi in tutto il mondo chiedono il cessate il fuoco ed il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza. La richiesta di riconoscimento dello stato palestinese è stata di recente ben accolta dai governi di Spagna, Irlanda e Norvegia. Tale apertura a relazioni bilaterali con la Palestina apre, da un lato, l’ipotesi del riconoscimento da parte di altre cancellerie europee e, dall’altro lato, lancia un chiaro messaggio politico a Tel Aviv, tecnicamente ancora un alleato dell’Occidente.

Quindi, da una parte ci sono questi tentativi di intavolare un dialogo tra le parti. Purtroppo, dall’altra parte vi è una galassia di attivisti occidentali che continua a chiudersi a ipotesi di pace e si stringe intorno alla causa palestinese così come interpretata da Hamas. Ad esempio, lo slogan “From the river to the sea” inneggia alla distruzione di Israele e, ciononostante, esso è sempre più diffuso e viene ripetuto spesso senza conoscerne il reale significato. Se in occidente riecheggia l’eco di uno slogan, da oriente si levano cori di guerra. Hezbollah (altra organizzazione terroristica, di stampo sciita e finanziata dall’Iran e ora alleatasi anche con la sunnita Hamas) ha di recente colpito più volte con razzi la Galilea dalle sue basi nel sud del Libano. Hezbollah ha rivendicato le sue azioni in supporto alla causa palestinese. Tali attacchi hanno indotto Israele a concentrare sempre più soldati al confine settentrionale per fugare il pericolo di attacchi via terra.

Da giugno Hezbollah ha alzato il tiro: il suo leader Nasrallah si è detto pronto a impiegare il proprio arsenale missilistico per colpire Cipro. Il piccolo stato insulare dell’Unione Europea è accusato dai terroristi sciiti di cooperare nelle azioni belliche di Tel Aviv. L’accumulo di materiale per costruire e lanciare missili nelle zone di Libano controllate da Hezbollah rende la minaccia realistica, seppur sia più probabile l’impiego dei vettori contro il suolo israeliano. Insomma: una escalation che, almeno a parole, va a coinvolgere direttamente la sicurezza di uno stato membro dell’Unione Europea di cui fin troppo spesso ci dimentichiamo.

L’accusa di supporto militare cipriota a Israele è decisamente infondata: Cipro è uno di quei paesi membri dell’Unione che riconosce l’Autorità Nazionale Palestinese e ne difende il diritto ad esistere. Inoltre, la cooperazione israelo-cipriota si limita al tempo di pace: Nicosia ha più volte messo a disposizione il proprio spazio aereo per le esercitazioni militari di Tel Aviv, ma mai durante operazioni belliche, facendo sapere che il territorio cipriota non sarà mai utilizzato da nessuna nazione in guerra. Al contrario, dal 7 ottobre Cipro ha offerto i propri porti come punto di attracco per gli aiuti umanitari destinati ai palestinesi, supportando attivamente lo sforzo della comunità internazionale per soccorrere una popolazione palestinese ingiustamente trascinata nel conflitto da Hamas.

Seppur con ritardo, l’Unione Europea ha preso ufficialmente posizione contro le minacce:

«Cipro è uno stato membro dell’Unione europea, e questo significa che l’Unione Europea è Cipro e Cipro è l’Unione Europea. Ogni minaccia contro uno degli stati membri è una minaccia contro l’Unione Europea».

Il messaggio è chiaro: nessuno dei paesi membri può essere lasciato indietro. Una simile dichiarazione ha lo stesso effetto di un sorso di acqua fresca in una torrida giornata estiva: ricordare e riportare al centro del discorso politico l’unità europea è fondamentale in un momento in cui il “vecchio continente” sembra massimamente diviso sia sulla politica estera comune che nelle sensibilità particolari dei membri (come emerge dalle recenti elezioni europee).

Le tensioni nell’area mediorientale non accennano a diminuire: la Turchia ha di fatto sposato la tesi di Hezbollah, aggiungendo che Cipro fungerebbe come base per operazioni di intelligence della NATO a favore di Israele. A dire il vero, le parole di Ankara erano prevedibili: dal 1974, la Turchia sostiene l’occupazione militare dell’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord. Pertanto, l’ingerenza turca è volta a minacciare Nicosia più che sostenere Hamas o Hezbollah. Infatti, la Turchia ha contestualmente accusato Cipro di essere connivente con Tel Aviv, di essere una minaccia per la causa palestinese e di essere un burattino occidentale legato alle istanze di Atene (tirata in ballo dalla sola Ankara). In definitiva: la Turchia di Erdogan gioca con le tensioni nell’area per rilanciare il suo progetto neo-ottomano e non per un sincero interesse sulla questione israelo-palestinese.

La nuova questione cipriota va a legarsi ad un ulteriore fronte aperto e ancora caldo: il Mar Rosso minacciato dagli Houthi. I due fronti si uniscono attraverso il Regno Unito: Londra possiede due basi militari sull’isola di Venere, utilizzate per condurre operazioni di sicurezza nel Mar Rosso contro il gruppo terrorista yemenita. Pertanto, non è da escludere un legame tra la minaccia di Hezbollah ed i terroristi yemeniti: annunciare di essere pronti a colpire Cipro implica, latu sensu, prepararsi a colpire le basi inglesi coinvolte nella neutralizzazione delle milizie degli Houthi (anch’essi finanziati e armati da Teheran).

Cipro non è membro della NATO, ma ciò non significa che sia solo o indifeso: è comunque protetto dal dispositivo di difesa dell’Unione europea, che solleciterebbe le capitali europee a sostenere Nicosia al massimo delle loro capacità. Il rischio che Hezbollah correrebbe è semplicemente inimmaginabile.

Il ministro degli esteri israeliano Katz afferma che Israele sarebbe assolutamente in grado di sostenere una guerra su due fronti. L’affermazione è ben credibile, vista la composizione dell’esercito che opera a Gaza: dall’inizio delle operazioni, sempre più membri professionali dell’esercito sono stati ritirati e sostituiti da riservisti. Attualmente, la maggior parte dei soldati di professione israeliani è stata rischierata a nord e pronta a combattere, se necessario.

Un secondo fronte rimane, comunque, da evitare in ogni modo. È in gioco la reputazione di Israele, sulla cui testa pesa il fatto (ormai assodato) di non riuscire a raggiungere a Gaza quell’end game che è la debellatio di Hamas. Distruggere un’organizzazione terroristica non è facile, soprattutto quando essa si scherma con ostaggi (sia israeliani che palestinesi). Tuttavia, anche qualora lo scopo dovesse essere raggiunto, nulla esclude la rinascita di un’organizzazione parallela in Cisgiordania. Inoltre, è da considerare la brutalità che uno scontro con Hezbollah potrebbe avere. La decisione di Tel Aviv di fare riscorso a soldati professionisti per arginare un attacco da nord indica che sul campo di battaglia le milizie di Hezbollah sono più organizzate e pericolose di quelle di Hamas: la distruzione che verrebbe portata nella regione sarebbe enorme e a pagarne le conseguenze sarebbero i civili libanesi, già piegata da crisi economica, penuria di risorse, instabilità politica e malgoverno. Evitare un intervento in Libano non vuol dire abbandonare Israele: Tel Aviv non può e non deve subire passivamente gli attacchi da Hezbollah. La capacità difensiva di Iron Dome permette agli israeliani di essere relativamente sicuri. Tuttavia, questo non implica che, prima o poi, il sistema venga saturato, conducendo ad una strage di civili. La diplomazia internazionale si è già mossa: diplomatici francesi e americani hanno chiesto ad Hezbollah di fermare il lancio di razzi, per non indurre una risposta armata di Israele. Il tempo per fermare un nuovo ed inutile fronte, è ora.

(A cura di Gabriele De Fazio)