Cina: tra “furti del millennio” e minacce alla pace

da | Nov 13, 2023 | Politica Internazionale

Oggi la Cina è la seconda economia del pianeta dopo gli Stati Uniti e c’è chi afferma che nei settori tecnologicamente più avanzati la sua crescita sia inarrestabile. Questo Paese che fino a pochi decenni addietro si trovava a fronteggiare devastanti carestie sembra essere quasi riuscito a completare il processo di catching-up mediante un vero e proprio miracolo economico. Ciò ha spinto esponenti del mondo politico e giornalistico ad affermare che “la Cina rappresenta una valida alternativa al modello occidentale e la sua straordinaria crescita economica ne è la testimonianza”. Numerosi Paesi occidentali, tra cui la Germania, si sono fortemente avvicinati politicamente e commercialmente al Dragone nel corso degli anni, alla ricerca di un mercato di sbocco che potesse sostenere i profitti delle imprese nazionali in un contesto ancora condizionato dalla crisi finanziaria. L’Italia, durante il governo Conte I, con Luigi Di Maio al ministero degli esteri, è addirittura arrivata a siglare un Memorandum of Understanding per l’adesione alla Belt and Road Initiatives, la cosiddetta Nuova Via della Seta annunciata quasi dieci anni fa dal presidente cinese Xi Jinping. Alcune voci hanno iniziato a guardare al Dragone con crescente interesse arrivando a definirlo un “partner” naturale per l’economia italiana.

La realtà però è un’altra. L’atteggiamento tenuto da Pechino nell’ambito delle relazioni politico-economiche globali rappresenta una seria minaccia alla stabilità globale e in un’ultima istanza alla pace. E’ necessario analizzare le pratiche messe in atto dal Dragone (e dai suoi alleati) in primo luogo in ambito economico e in secondo luogo in ambito militare. Il best-seller “Il Furto del Millennio”, scritto da Fabio Scacciavillani e Michele Mengoli, espone in maniera lucida e analitica come la Cina porti avanti da decenni pratiche commerciali illecite. Prima fra tutte, si ha il “furto” di tecnologie e segreti industriali a danno di USA e Paesi europei. Tale pratica verrebbe perpetrata mediante sottrazione di tecnologia, attacchi informatici a laboratori e centri di ricerca, dumping, ricatti, violazioni di proprietà intellettuali, corruzione politica e manipolazione delle opinioni pubbliche attraverso ciò che viene definito come “guerra ibrida”. Secondo stime dell’FBI, il valore del bottino messo a segno dal Dragone ai danni delle sole aziende ed istituzioni americane si aggira attorno i 600 miliardi di dollari all’anno. Se si pensa che il Next Generation EU, programma quinquennale da cui deriva il Nostro PNRR, ammonta a 750 miliardi di Euro e che questi sono presi a prestito e dovranno essere ripagati con tanto di interessi, è facile comprendere il vantaggio economico che questa attività ha apportato alla Cina, la quale non ha nemmeno dovuto ammortizzare i Costi di R&D (ricerca e sviluppo). Se si considerassero anche gli altri Paesi avanzati, il valore totale di questo “furto” potrebbe raggiungere la cifra stratosferica di mille miliardi di dollari. Fabio Scacciavillani, nel corso di una live tenutasi sui canali social del Liberal Forum, ha riportato che secondo voci autorevoli tali azioni scorrette siano coordinate direttamente dal governo centrale e che senza di esse il sistema industriale cinese non avrebbe potuto colmare il divario tecnologico in tempi così brevi. A ciò si aggiunge il fatto che, complice l’elevata commistione tra sistema politico e sistema giudiziario locale e l’opacità tipica del Dragone, per le aziende occidentali che abbiano subito pratiche scorrette da parte di una controparte cinese sia praticamente impossibile fare causa ad un’azienda cinese in Cina. Per lungo tempo le diplomazie dei paesi avanzati hanno sperato che l’apertura economica della Cina e la sua ammissione nella World Trade Organization avrebbe automaticamente portato alla democratizzazione del paese e all’adozione di valori simil-occidentali. Tale auspicio, tuttavia, è sempre rimasto incompiuto. Il regolare utilizzo di pratiche commerciali scorrette e la crescente competizione ha portato in primo luogo a un parziale “decoupling” delle economie nostrane dalla Cina, ovvero a una riduzione della dipendenza da Pechino; in secondo luogo alcuni governi, a cominciare dagli stessi USA, hanno varato politiche di guerra commerciale e limitazioni alle esportazioni verso Pechino (nonostante i potenziali danni connessi a tali pratiche).

La pericolosità della Cina per l’ordine liberale e democratico viene tuttavia anche dal versante militare e dal dichiarato intento di espandere la propria sfera di influenza nel Mar Cinese Meridionale prima e nell’area pacifica poi. Xi Jinping ha più volte lasciato intendere che intende portare (o secondo la sua visione “ri-portare”) Taiwan sotto il controllo di Pechino entro il 2027, ossia durante il suo terzo mandato consecutivo alla guida della Repubblica Popolare. Che Taiwan sia una “provincia ribelle” è una pura forma di propaganda, peraltro mal riuscita, da parte del Partito Comunista Cinese. Basti ricordare che l’isola di Formosa è stata sotto il controllo giapponese da inizio ‘900 fino alla sconfitta del Sol Levante nella Seconda Guerra Mondiale, e dal 1949 in avanti ha ospitato le forze di Chang Kai Shek prima e l’attuale Repubblica di Cina poi. La maggior parte degli abitanti tuttora ammira il modello giapponese, anziché quello cinese, ha esperito decenni di crescita nel tenore di vita che hanno reso l’isola una delle quattro “tigri asiatiche” (Taiwan, Singapore, Corea del Sud e Hong Kong) e non vorrebbe mai subire lo stesso trattamento riservato alla stessa Hong Kong. La feroce repressione del dissenso che Pechino ha messo in atto nell’ex colonia britannica ha peraltro smascherato l’ipocrisia dietro alla formula “Un Paese, due sistemi”. Il “sistema” è unico, ed è lo stesso che massacra milioni di uiguri nella regione dello Xinjiang tramite dei campi di rieducazione e che detiene ogni anno il record di giornalisti condannati a morte. Ricordiamo che fu lo stesso Xi Jinping ad abolire nel 2018 il limite di due mandati consecutivi alla presidenza, assicurandosi un potere che non si vedeva dai tempi di Mao Zedong. Lo stesso Mao che affermava che “il potere nasce dalla canna del fucile”, che Xi punta ad avvicinare a livello di importanza nella storia della Repubblica Popolare. Un’ipotetica caduta di Taiwan verso Pechino rafforzerebbe esponenzialmente la Cina nell’estremo oriente, concedendole di fatto un’area di influenza di enormi dimensioni, e non solo. L’obiettivo di Xi Jinping è infatti condurre la Cina al ruolo di principale potenza globale, come era stata prima del cosiddetto “secolo delle umiliazioni” (1839-1949), subito da parte del Giappone e delle potenze occidentali. Se le aspirazioni di potenza da parte di Pechino sono legittime, la destabilizzazione politico-militare di una parte di mondo che da quasi un secolo ha imboccato la strada dello sviluppo e della democrazia non lo è. Tramite l’isola di Formosa, Pechino potrebbe innanzitutto espandere la propria influenza nell’area del Pacifico, che vede oggi una forte presenza statunitense grazie al Quad, il Quadrilateral Dialogue che Washington ha sviluppato con India, Australia, Giappone e che geograficamente ingloba anche Corea del Sud e Filippine, e altri accordi bilaterali. In secondo luogo, Pechino potrebbe finalmente ergersi a tutti gli effetti al rango di superpotenza mondiale promotrice di un modello in grado di rivaleggiare e sconfiggere quello americano-occidentale. Per questa ragione Taiwan è tanto importante per entrambi gli schieramenti. Per la medesima ragione i toni sempre più aggressivi da parte di Xi nei confronti della Repubblica di Cina e la crescente assertività militare di Pechino nel Mar Cinese Meridionale destano sempre una crescente preoccupazione a Taipei e presso le capitali occidentali. Se consideriamo poi il sostanziale appoggio a Putin nell’invasione dell’Ucraina e ad Hamas nella sua causa contro Israele (sulle mappe del motore cinese Baidu il nome di “Israele” ad oggi non compare più), e per estensione ai vari regimi ad essi alleati nell’area, il quadro complessivo assume connotati terrificanti.

La crescente aggressività delle potenze menzionate dimostra che, se si vuole difendere la libertà e lo sviluppo che essa assicura, ad oggi non esistono alternative concrete al blocco occidentale, soprattutto dal punto di vista economico. In un contesto di forte incertezza economica e spirale inflazionistica, le aziende stanno razionalizzando le proprie catene del valore secondo logiche di safe-shoring e friend-shoring, sviluppando cioè le proprie attività in mercati ritenuti sicuri, politicamente vicini e affidabili, in ottica di contenimento dei costi e dei rischi, che diventerebbero altrimenti insostenibili. Con buona pace dei tanti nemici interni che tentano di addossare all’Occidente la colpa di tutti i mali del mondo e che simpatizzano con regimi che rappresentano l’antitesi perfetta degli ideali di progresso e inclusione in cui noi crediamo. Ha ragione il CEO di JP Morgan Jamie Dimon quando afferma che viviamo in uno dei periodi di maggior pericolo da decenni a questa parte. Alcuni analisti temono che Cina e USA siano già inesorabilmente destinati alla trappola di Tucidide, secondo la quale due potenze che si contendono il primato siano portate a intraprendere una guerra l’una contro l’altra, come fecero Sparta e Atene quasi 2500 anni fa. Ci auguriamo non sia così. Conditio sine qua non perché ciò non accada è che l’Occidente sia forte, unito e con una leadership stabile e lungimirante, che, oltre a dialogare con le altre potenze, sappia far fronte ai nemici interni ed esterni che lo vogliono trascinare verso un ridimensionamento irreversibile. Mai come oggi sono fondamentali i legami economici e politici tra alleati, tanto a Bruxelles quanto a Washington quanto in Estremo Oriente. 

(A cura di Riccardo Ferri, Francesco Sapucci e Marco Bottoni)