In questa seconda parte dell’articolo si vuole dare un quadro generale di proposte di riforme istituzionali degli enti locali, da cui partire per costruire una proposta condivisa da parte del mondo liberale.
Anzitutto, a disciplinare l’ordinamento vigente per gli enti locali è il titolo V della parte II della Costituzione. In particolare, tre articoli sono centrali per capire l’attuale funzionamento: 114, 117 e 118. Questi tre articoli sono stati sottoposti a modifica con la Legge costituzionale numero 1 del 1999 e la Legge costituzionale numero 3 del 2001. Queste due modifiche prevedono: l’elezione diretta da parte dei cittadini del presidente della regione (poi diventato governatore) e del consiglio regionale; l’equiparazione formale tra stato, regioni ed enti locali come elementi costitutivi della repubblica; l’attribuzione della competenza legislativa residuale; l’affermazione del principio di autonomia finanziaria integrale degli enti territoriali. Nell’ottica della destra, l’introduzione recente dell’autonomia differenziata, con l’assegnazione delle funzioni sulla base di una concertazione tra regione richiedente e stato centrale, dovrebbe completare il quadro prospettato dalle leggi costituzionali del 1999 e del 2001.
Anche in un’ottica favorevole a questo ragionamento, un grosso problema è dato dalle molte materie concorrenti tra stato e regione e dalla difficoltà amministrativa data dallo iato tra l’amministrazione regionale e i comuni. Questi ultimi (va ricordato) godono di un’importanza seminale per la riconoscibilità e la formazione degli enti locali superiori e dello stato, ma soprattutto godono delle quattro autonomie (statutaria, normativa, amministrativa e finanziaria) proprie di ogni ente locale. In forza di ciò, esigono tasse proprie, definiscono e rispettano il bilancio comunale annuale e il piano regolatore, sorvegliano ordine pubblico e pubblica sicurezza, gestiscono la viabilità delle strade comunali, gli edifici pubblici, lo smaltimento dei rifiuti e le criticità legate a maltempo e calamità naturali.
Per colmare tale iato si è reso necessario riscoprire e modificare il ruolo delle province: ci ha provato la legge 56/2014, promossa dal governo Renzi e nota come legge Delrio. Tale legge istituisce le città metropolitane e restituisce alle province i compiti di: pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza; pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali; programmazione provinciale della rete scolastica; raccolta ed elaborazione dati ed assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; gestione dell’edilizia scolastica; controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale. La legge Delrio stabilisce che a espletare tali funzioni siano organi provinciali eletti non direttamente dai cittadini, ma dai sindaci e dagli assessori comunali dei comuni facenti parte della provincia.
Al di là della evidente poca democraticità dell’assetto provinciale attuale, tutta la giurisprudenza italiana in materia di enti locali sembra ignorare il proverbiale elefante nella stanza: le regioni. Esse sono nuovi regni, ducati e repubbliche marinare, ma all’interno di un altro stato con cui spesso concorrono nelle funzioni. Inoltre, anziché aiutare lo sviluppo dei territori e riportare al centro le piccole comunità, questo ente (nei fatti) fa esattamente il contrario. Ciò è particolarmente evidente nelle regioni più grandi e popolose. Le giunte regionali tendono a privilegiare sempre alcune aree anziché altre, abbandonate alla cura dei propri amministratori, quando non proprio al disinteresse e, in casi estremi, al degrado. Si tratta soprattutto delle aree più povere e/o spopolate della regione. Insomma, la regione è un ente troppo distante dai territori e dalle persone, ma non è abbastanza grande da rappresentare un ramo efficace dello stato centrale. Come osservato più volte dalla Fondazione Einaudi, la regione è una creatura nel mezzo, foriera di spese per la sua stessa esistenza e di una burocrazia che si aggiunge alla già pesante macchina statale. In ciò pesa l’esistenza delle già citate materie concorrenti con lo stato.
Cosa si può fare? Un’idea potrebbe essere quella di avvicinare l’esperienza amministrativa ai cittadini e ai territori abrogando del tutto le regioni, assegnando alle province tutte le materie assegnate attualmente alle regioni ed eliminando la concorrenzialità da parte dello stato a favore degli enti locali. Le province verrebbero amministrate da un consiglio provinciale di trentanove consiglieri eletti dai cittadini con sistema di distribuzione fissa dei seggi. Diciotto consiglieri sono fissi per l’opposizione. Nel caso ci fosse più di una lista all’opposizione, la distribuzione dei diciotto posti sarebbe proporzionale al numero di voti raccolti sul totale dei voti andati all’opposizione. Gli altri ventuno consiglieri sono espressione della maggioranza e formano la giunta provinciale. Essa è formata dal presidente della provincia, precedentemente capolista nel momento elettorale, e da venti assessori, con nomenclature e funzioni uguali in tutte le centosei province e città metropolitane d’Italia. Gli assessorati sono: rapporti con la UE, tutela e sicurezza sul lavoro, coordinamento della programmazione scolastica provinciale primaria e secondaria, infrastrutture scolastiche pubbliche secondarie e terziarie, ordini professionali, attività produttive, infrastrutture sanitarie, coordinamento della sanità pubblica provinciale e sicurezza alimentare, sport, coordinamento della protezione civile provinciale (rilevata ai comuni), porti aeroporti e stazioni ferroviarie, ferrovie e vie d’acqua, strade extraurbane e trasporto pubblico provinciale su gomma, infrastrutture civili informatiche e di comunicazione, infrastrutture energetiche, tesoro e finanza provinciale, tutela e promozione del patrimonio forestale e paesaggistico, tutela e promozione dei beni culturali, attività culturali e di promozione sociale, agricoltura e casse e crediti fondiari.
Ogni lista, partito o coalizione di partiti e liste civiche deve presentare obbligatoriamente venti candidati a sostegno del candidato presidente, così da poter distribuire loro i venti incarichi previsti. Al consiglio provinciale si dovrebbe affiancare un’assemblea provinciale, composta da tutti i sindaci, incluso quello del capoluogo, che fungerebbe da presidente di tale organo. Nel caso delle città metropolitane, prenderebbero parte all’assemblea provinciale anche i sindaci delle municipalità che costituiscono il capoluogo. A differenza del consiglio provinciale, in cui tutti i consiglieri – anche quelli di opposizione – possono proporre disegni di legge provinciale e farli votare, l’assemblea provinciale ha solo potere di bloccare, a maggioranza semplice dei partecipanti, un provvedimento precedentemente votato dal consiglio provinciale. Ogni provvedimento degli assessori e del consiglio provinciale, una volta approvato, può entrare in vigore solo cinque giorni lavorativi dopo la sua approvazione. In quel lasso di tempo l’assemblea provinciale avrebbe la possibilità di riunirsi e decidere a riguardo. Per riunirsi, in quei cinque giorni lavorativi l’assemblea provinciale avrebbe due strade: o essere richiamata da almeno cinque consiglieri o fare autoconvocazione con almeno cinque sindaci che ne facciano espressa richiesta formale. L’assemblea non può chiedere le dimissioni di un consigliere o dell’intera giunta: questo spetterebbe solo al consiglio provinciale.
Ora, due o più province tra loro territorialmente attigue potranno avvalersi anche della possibilità di accordarsi tra loro per progetti condivisi. Gli assessori di una stessa materia potranno sedersi a un tavolo e creare commissioni unificate per lavorare insieme su questi progetti, con la regola che tutte le province coinvolte devono allocare lo stesso contributo economico e lo stesso contributo in termini di risorse umane.
Da quanto si evince, sostenere tutti questi compiti amministrativi senza concorrenzialità è particolarmente gravoso per le province, che andrebbero a riassorbire larga parte del personale delle regioni e anche di quei ministeri che verrebbero o ridimensionati o addirittura cancellati dall’eliminazione della concorrenzialità sulle funzioni degli enti locali. Ogni assessorato necessiterà infatti di un ufficio apposito con diverse decine di dipendenti amministrativi. Come sostenere una macchina così impegnativa sul piano finanziario?
Al di là delle varie tasse che ogni provincia potrebbe applicare ai suoi residenti così come fanno attualmente le regioni con le tasse regionali, la principale fonte di sostentamento di questi enti sarebbe la trattenuta fiscale. Ogni provincia tratterrebbe di base il 45% delle entrate fiscali che sul suo territorio vengono imposte dallo stato centrale. Nel caso delle aree meno economicamente avanzate del paese o delle aree più rurali questo importo sarebbe largamente insufficiente. Per tutte le province si ricorrerebbe a un algoritmo che somma a quel 45% altri importi percentuali che ogni provincia tratterrebbe per sé. Anzitutto, stando ai dati del 2022, una cifra che oscilla tra lo 0% (Milano) e il 28% (Enna) del totale delle tasse raccolte sul territorio provinciale verrebbe trattenuta sulla base del reddito medio disponibile delle famiglie. Poi una cifra che oscilla tra lo 0% (Napoli) e il 12% (Nuoro) del totale delle tasse raccolte sul territorio provinciale verrebbe trattenuta ogni anno sulla base della densità di popolazione. Loo scopo è quello di sostenere le aree con una bassa densità demografica, che presentano problematiche e costi specifici.
Per una questione di equità, è fondamentale che il calcolo sia sempre aggiornato alla situazione corrente, per rispecchiare i veri bisogni dei territori e dei loro cittadini. Dall’altro lato, non è pensabile fare un ricalcolo ogni anno, poiché le amministrazioni provinciali hanno esigenza di programmare con cifre certe per il medio termine. La soluzione per incrociare queste due necessità è data dal rinnovo triennale del calcolo delle trattenute. Ad esempio: se la riforma venisse approvata nel 2025 e l’algoritmo entrasse in vigore nel 2026 – per i calcoli di cui sopra – si utilizzerebbero opportunamente i dati del 2025 e l’algoritmo resterebbe dunque invariato per gli anni 2026, 2027 e 2028. Dopodiché, per i tre anni successivi, si applicherebbe il medesimo algoritmo aggiornato ai dati del 2028 e così via.
A questi numeri, validi per tutte le province e città metropolitane d’Italia, va aggiunto un ulteriore 10% di trattenuta per tutte le province di Sicilia e Sardegna per alleviare i problemi collegati all’insularità. Inoltre, un 5% di trattenuta fiscale andrebbe a quelle province con almeno il 20% della popolazione appartenente a una minoranza linguistico-culturale riconosciuta dallo stato, mentre per le altre province con una percentuale inferiore di minoranze sulla popolazione, la trattenuta sarebbe del 2%. Un’ulteriore trattenuta andrebbe a quelle province non insulari che hanno parte del proprio territorio consistente di isole naturali marittime: ad esse andrebbe una trattenuta percentuale equivalente alla percentuale di superficie insulare del loro territorio. Un’ulteriore trattenuta, infine, andrebbe a quelle province che hanno un luogo, un monumento o una tradizione patrimonio UNESCO: l’1% per ogni patrimonio dell’umanità presente nella provincia.
Con questa riforma complessiva, anche le province meno fortunate potrebbero portare avanti i compiti amministrativi preposti più che dignitosamente. D’altro canto, le province delle aree più avanzate godrebbero del frutto delle proprie fortune. Questa riforma serve a creare pratiche amministrative virtuose e uniformi in tutto il paese, sorvegliate dai cittadini in un rinnovato spirito democratico. D’altra parte, una simile riforma non basterà mai da sola a colmare le disuguaglianze di sviluppo territoriale. Troppo spesso offuscati dal proprio provincialismo e dalla propria grettezza, gli italiani di ogni parte finiscono per assolutizzare, in senso “nordista” o “sudista”, la disparità di sviluppo territoriale, facendone una peculiarità tutta italiana. In realtà, anche nazioni molto più efficienti della nostra presentano questi stessi problemi e, quandanche abbiano provato a metterci mano, il tentativo si è concluso in un mero fallimento. Esattamente come nel nostro caso. Tutti questi tentativi sono stati fatti nel quadro delle soluzioni offerte dallo stato nazionale. Si evince che nessuna politica interna può risolvere questo genere di problemi, la cui sede risolutiva rimane continentale: nel nostro caso, l’Unione Europea. Infine, con questa riforma non ci sarebbe più sovrapposizione di materie con lo stato centrale. Ne conseguirebbero molta meno burocrazia, regole molto più chiare e divisioni nette dei compiti. Lo stato centrale si alleggerirebbe di molti compiti e ridimensionerebbe molto i suoi costi a carico dei cittadini, ma questo argomento verrà approfondito nel prosieguo di questo articolo.
(A cura di Gennaro Romano e Daniele Avignone)