Per le riforme istituzionali (Parte I)

da | Ago 30, 2024 | Giustizia e Riforme

La situazione politica e istituzionale italiana necessita di grandi riforme. Questo lo si sa da tempo e lo dicono tutte le forze politiche. Ciononostante, negli anni i cambiamenti sono stati, più che pochi, poco radicali. Qualcuno imputa questo atteggiamento all’influenza “purista” di molti eminenti giuristi e politici in materia costituzionale, preoccupati di non ledere lo spirito di una carta costituzionale spesso giudicata troppo “a sinistra”. Per onestà, va detto che, da un lato, la costituzione antifascista promulgata il primo gennaio 1948 per svariati decenni ha fatto il suo buon lavoro e – dall’altro lato – come si approfondirà a breve, i tentativi di riforma delle destre sono stati spesso limati perché troppo distorsivi dello spirito e del funzionamento democratico.

Non si può pensare che per l’Italia vada bene la stessa costituzione promulgata settantasei anni fa senza nessuna modifica. Infatti, sono cambiate diverse condizioni di base: il paese è molto più alfabetizzato di allora, mentre la sua economia, le sue infrastrutture, la sua stratificazione sociale e le sue interazioni con il mondo sono molto più complesse e sviluppate e richiedono una macchina amministrativa più efficiente. Perché ci sia una maggiore efficienza, l’amministrazione deve necessariamente essere meno centralizzata, più snella, più rapida e più localizzata vicino ai fenomeni di quanto non potesse essere in un’Italia ancora in via di sviluppo. Inoltre, l’Italia di oggi è diversa da quella di qualche decennio fa anche perché i partiti post-ideologici sono molto meno capaci di garantire una programmazione e delle alleanze stabili rispetto ai partiti della cosiddetta prima repubblica. Ragion per cui un sistema strettamente parlamentarista e proporzionale, come caldeggiato dalla nostra costituzione, è stato meritevole negli ultimi anni di una rivisitazione almeno parziale.

A fronte di tutto questo, c’è da dire che negli ultimi venticinque anni le forze politiche, soprattutto le destre, si sono effettivamente interessate a cercare di adattare il nostro quadro istituzionale alle esigenze del tempo presente. La sinistra ha solitamente prestato ascolto alla parte più attempata della propria intellighenzia e ha prediletto atteggiamenti di maggiore prudenza nella modifica dell’assetto originario. Un’importante eccezione è stata il governo Renzi, autore di una legge elettorale maggioritaria (Rosatellum) e di un referendum, notoriamente perdente, per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione.

D’altro lato, la destra ha tenuto un atteggiamento più aggressivo. Per motivi di bilanciamento delle diverse proposte politiche interne le riforme degli enti locali e del titolo quinto della costituzione sono procedute con tanti ma insoddisfacenti interventi: l’autonomia differenziata – recentemente votata – non fa eccezione. Ben altra storia vale per l’assetto del potere centrale. Oltre a porre in discussione di continuo e con inusitata intensità il potere giudiziario, la destra ha in questi anni proposto a più riprese una modifica in senso presidenzialista della costituzione e ha lottato per avere un esecutivo forte. Viste le molte difficoltà ad ottenere tali obbiettivi per via di modifiche costituzionali, negli anni le destre hanno prediletto finora appoggiare ogni modifica in senso maggioritario della legge elettorale e, recentemente, stanno battagliando per l’ottenimento del premierato. Una formula, quest’ultima, del tutto inedita nella storia istituzionale italiana e internazionale. Inoltre, le destre hanno introdotto alcune prassi nell’esecutivo, come l’ampio ricorso a DPCM, di cui anche le sinistre durante la pandemia da covid 19 hanno fatto un certo abuso.

Posto tale scenario, ogni buon liberaldemocratico dovrebbe interrogarsi su quanto regionalismo, premierato, maggioritario e altre formule varate o proposte negli anni servano effettivamente a creare in Italia un apprezzabile sviluppo territoriale, una maggiore partecipazione democratica alla vita politica, un apprezzabile sviluppo del senso civico e della responsabilità individuale e una sostanziale riduzione dello spreco pubblico in un paese già largamente indebitato.

Allo scopo di ottenere tutte queste cose, occorre che i liberali italiani, eredi di una delle compagini più rilevanti dell’Assemblea costituente eletta nel 1946, offrano una loro proposta di riforme istituzionali, alternativa a quelle offerte di recente dalle forze politiche dominanti. Tale proposta liberale, oltre a fissarsi gli obbiettivi indicati sopra, deve essere complessiva e organica, abbracciando la vastità dei problemi istituzionali, dagli enti locali fino alla prima carica dello stato. D’altro lato, una proposta liberale unificante deve essere accettata e condivisa dalla maggioranza dei liberali e deve essere condivisa alle forze politiche e culturali e a tutte le associazioni e le persone che vogliano sostenerla.

Quest’articolo, pubblicato in tre parti, vuole essere una base da cui far partire la discussione su un condiviso disegno di riforme a carattere liberaldemocratico. Allo scopo, si è cercato di tenere insieme quante più sensibilità liberali nell’analisi dei problemi e nell’offrire soluzioni. Nella prossima parte di questo articolo si affronterà il tema degli enti locali. Nella terza parte, invece, i temi del presidenzialismo e della composizione del legislativo.

(A cura di Gennaro Romano e Daniele Avignone)