Furor Liberalium (1/2)

da | Nov 3, 2024 | Giustizia e Riforme

Giunto il mio turno di scrivere un articolo per questo blog, ho avuto una forte indecisione: occuparmi dell’inutilità e dannosità della lente sud-nord per analizzare i problemi dell’Italia o realizzare un articolo sul rapporto tra cristianesimo e liberalismo? Due temi senz’altro succosi, ma che possono essere rimandati anche ai prossimi mesi: senz’altro non sono argomenti che conoscerebbero sostanziali novità nel corso del tempo. Ben altra situazione si presenta per quelle questioni che si pongono per via dei fatti di attualità politica e cronaca giudiziaria: per non perdere la scia data dal “calore” delle notizie, ho quindi deciso di rimandare i due argomenti di sopra per futuri articoli e seguire con il ticchettio della tastiera del computer i pensieri e le riflessioni che alcuni fatti recenti mi hanno innescato.

Negli ultimi mesi alcune voci del mondo centrista, liberale, democratico hanno avviato un’escalation mediatica di appostamenti, proteste, dibattiti e manifestazioni varie contro le varie caste, i vari gruppi “intoccabili” che si oppongono al libero mercato e alla concorrenza nei rispettivi settori: coltivatori, balneari e tassisti su tutti. Sulle prime due categorie non vale la pena dilungarsi in analisi: basta farsi un giro sulla nostra bolla social per avere un quadro della situazione ben chiaro e fare la conta delle vesti stracciate da una parte e dall’altra. Più significativo per il nostro discorso è il caso dei tanto odiati coltivatori.

Definiti con astio e risentimento dal nostro segmento di opinione pubblica come “trattoristi”, gli agricoltori italiani ed europei vengono accusati dai centristi nostrani di qualunque cosa. Anzitutto, di stare con Putin. Cosa giustifica questa accusa generalizzata? Qualche bandiera russa che compare in due-tre foto delle manifestazioni estive con i trattori a Bruxelles… Come se poi non ci fossero filorussi tra i più stimati docenti e professionisti… Poi, altra accusa è quella di opporsi alla carne sintetica su questo, quasi nessun agricoltore, al di là di quel leprecauno di Coldiretti che ha assalito il buon Della Vedova, si è stracciato le vesti. L’accusa preferita e un vero ever-green è però un’altra: spolpare il budget della UE. In realtà non solo la PAC (studiata per le esigenze delle aziende tedesche e esteuropee) non serve a nulla alle piccole aziende agricole italiane (che spesso vi rinunciano). Soprattutto, i contributi PAC sono utilizzati dall’UE come strumento di pianificazione e specializzazione delle varie aree del continente e come strumento di ricatto verso le aziende: le multinazionali e la GDO, nel comprare il prodotto finanziato da PAC, offrono prezzi molto bassi. Il coltivatore, in assenza di PAC, potrebbe benissimo rivalersi sui prezzi di vendita in campagna, rispettando le regole di mercato e senza influenzare davvero il prezzo finale per il consumatore: basti pensare che nella UE il prezzo del cibo al supermercato è dato dal comparto agricolo solo per massimo il 7% nel caso dei prodotti freschi e fino a meno del 2% per i prodotti alimentari trasformati (conserve, marmellate, surgelati ecc.). Gli esigui contributi PAC sono facilmente recuperabili per questa via, ma la GDO non ha nessuna intenzione di aprire contrattazione alcuna. Più che gli agricoltori, sono i burocrati e i politici da una parte e la GDO dall’altra a volere i contributi PAC: i primi per la loro perversione regolatrice, i secondi per limitare più possibile una libera ed equa contrattazione con il mondo agricolo.

Assodato che quindi il furor liberalium è non sempre tanto più razionale di quello dei populisti e delle altre parti politiche, uno potrebbe anche perdonare certi eccessi: quando si crede molto in un’idea, si rischia sempre di peccare di eccesso di zelo ed entusiasmo. Questo zelo si dovrebbe quindi verificare in tutti i casi di approcci difensivi di varie categorie e non solo verso quelle canaglie che l’immortale Totò avrebbe definito dai modi inurbani e interurbani (!). Giusto? Beh, non proprio.
Quando il governo ha annunciato non già di aver annullato i test di ingresso, ma semplicemente di aver spostato il test di ingresso più in là nel corso del primo anno, la levata di scudi di tutti i principali gruppi politici e associativi del centro è stata decisa e perentoria. Non solo: più che i toni e i contenuti, a essere stato impressionante è stato il tempismo immediato della reazione, di un’immediatezza abbastanza inusuale per la nostra area.

Un’argomentazione addotta a sfavore del provvedimento del governo è stata che avrebbe comportato una dilatazione eccessiva della spesa pubblica a favore dei dipartimenti universitari di medicina, specialmente per le magistrali. Nel porre questa argomentazione, ci si dimentica che dal primo anno di medicina all’accesso alla specializzazione passano anni. Il percorso seennale di medicina è durissimo e laurearsi fuoricorso a medicina è praticamente la norma. Se anche si riesce: molti studenti non riescono a superare i primi anni e cambiano strada. La selezione, quindi, avviene anche dopo il test. È bene ricordare anche che nelle intenzioni del governo si tratta solo di posticipare il test, non di eliminarlo. Se si fosse trattato di una eliminazione, i timori di molti libdem sarebbero stati, se non giustificati, condivisibili, ma non è questo il caso.

Infine, molti comunicati centristi hanno sollevato anche preoccupazione sia sul costo in sé degli iscritti che non terminano gli studi di medicina sia sul rischio di avere un eccesso di laureati in medicina. Il primo argomento non ha senso perché, da un lato, vale in realtà per gli iscritti di tutti i corsi di laurea e, dall’altro lato, tutti hanno il diritto a cambiare strada, specie in un sistema dell’istruzione italiano che costringe i giovani a iniziare l’università un anno dopo i colleghi europei e senza che ci sia chiarezza informativa su opportunità e obbiettivi dei corsi di laurea sin dalle scuole superiori. Quanto a un eventuale eccesso dei laureati in medicina, l’affermazione si commenta da sola ed è spia di un’enorme distanza di molti politici e militanti libdem dalla quotidianità del Paese. L’Italia sarà sempre più anziana e il bisogno di medici in rapporto alla popolazione aumenterà sempre più. Senza considerare che già ora la carenza di personale sanitario è un’emergenza nazionale primaria.

È chiaro che gli unici che ci perderebbero con un aumento del numero dei medici (un rischio che, come abbiamo visto, non esiste) sono i medici attualmente in servizio, che dovrebbero far pagare i propri servizi privati meno di quanto facciano adesso. Non sono solo gli atteggiamenti corporativi dei medici a non trovare un’opposizione (se non a trovare appoggio) tra i centristi libdem: mai una parola sui notai, quasi mai una parola su baronie universitarie e giudiziarie. Se sui baroni universitari in passato qualcuno dei nostri si è espresso perché i baroni erano quasi tutti di sinistra. Invece, oggi in molte facoltà la situazione si sta riequilibrando verso il centro (se non proprio verso destra) e i giovani libdem hanno pressoché totalmente abbandonato questo tema per una questione di convenienza. Quanto alle toghe, anche in questo caso i nostri attaccano solo ed esclusivamente quando ci sono provvedimenti e argomenti specifici di quel mondo che ledono il nostro garantismo. Fatta salva qualche lodevolissima eccezione, nessuno di noi fa dell’opaca selezione di giudici e magistrati un problema politico.

Se tutto questo fosse solo una fantasia febbrile di chi sta scrivendo, allora non avrebbe spiegazione il fatto che molti follower e simpatizzanti della nostra area – perlopiù non militanti e meno attenti alle linee di movimenti ed esponenti politici – esprimano in modo sparso le stesse perplessità sul tema test a medicina che ho riportato sopra. Il tema è molto chiaro: che il liberalismo democratico italiano sia socialmente determinato come una famiglia politica dominata dalle fasce di reddito alte dei servizi dei capoluoghi non è una novità. Tuttavia, bisogna farsi anima e coraggio e riconoscere dentro l’area che questa cosa non va bene, è sintomo di un problema e va risolta. Possibilmente senza buttare la croce sui rozzi analfabeti che non ci votano.

Il primo passo per risolvere il problema è capire da dove nasce. Il liberalismo in Italia si sviluppa nel corso del Risorgimento e diviene l’ideologia di riferimento per la costruzione dell’Italia unita, prevalendo sul neoguelfismo, sul mazzinianesimo e sulle nascenti idee anarchiche. Pur diviso in varie correnti che condussero alla creazione dei diversi club del parlamento della neonata Italia, il liberalismo italiano si era veicolato nelle compagini più dinamiche dell’Italia preunitaria: artigiani e operai specializzati delle città, avvocati, professori, imprenditori, commercianti, finanzieri e aristocratici progressisti. Questo perché, oltre ai chierici, erano gli unici a saper leggere e scrivere.

Le idee devono sempre trovare un veicolo per emergere e in un paese come l’Italia ottocentesca, gravemente sottosviluppato rispetto all’Europa occidentale, il veicolo era una classe dirigente molto esigua. Questa piccola classe dirigente non solo ebbe a diventare, gioco-forza, un’élite non grandissima e che faticò ad allargare via via il suffragio. Soprattutto, concentrò via via su di sé tutte le più ghiotte opportunità politiche, imprenditoriali e di carriera civile e militare che un paese con così grandi potenzialità presentava. Quelle élite – prima animate da nobili idee e duramente perseguitate da reazionari austriaci, borbonici e papali – sostituirono sempre più gli ideali liberali del Risorgimento con legami personali, familiari e di interesse. Questo cortocircuitò ideologico e identitario portò progressivamente a tutte quelle contraddizioni esplose prima nella crisi del 1898 e poi nelle fasi immediatamente precedenti all’instaurazione del Fascismo. Un’altra conseguenza di questo cortocircuito fu la preferenza dei liberali italiani di varia ispirazione per il metodo notabilare. I liberali si diedero una forma partitica solo nel 1922: un notevole ritardo rispetto ai colleghi di altri paesi occidentali, nei quali la formula partitica aiutò a estendere la base sociale del liberalismo politico.

(A cura di Gennaro Romano)