Salari e produttività: Occhi nuovi per un mondo nuovo

da | Apr 24, 2024 | Economia

Il report OCSE 2023 sulla variazione dei salari è stato (ancora una volta) impietoso per l’Italia. Nei trent’anni analizzati, i salari italiani sono cresciuti in media del 1%, a fronte del 35% della media OCSE.

Questo dato, insieme a quello relativo sulla crescita del PIL (tornato allo ‘zero virgola’), secondo l’ortodossia economica sarebbe da ricondursi principalmente alla bassa produttività dei lavoratori italiani, la quale determinerebbe una bassa crescita economica del paese e, di conseguenza, un basso livello dei salari.

Tuttavia, è parere di chi scrive che si tratti di un modo di leggere l’economia che non tiene conto di tutti i cambiamenti geo-politici, sociali e tecnologici degli anni ‘2000, soprattutto dopo la crisi economico-finanziaria del 2008.

Studi recenti mostrano empiricamente che la bassa crescita non derivi dalla bassa produttività: è la bassa produttività a derivare dalla bassa crescita. In altre parole: è la scarsa crescita della domanda a generare una bassa crescita della produzione, finendo quest’ultima con il determinare a propria volta una bassa produttività.

La crisi finanziaria del 2008 è giunta dopo l’abbandono delle politiche keynesiane che avevano guidato la ricostruzione del secondo dopoguerra, prima, e una crescita economica diffusa sia in Europa che in Italia, poi. Dopodiché, per via della conseguente stagflazione, le due crisi petrolifere degli anni Settanta generarono sfiducia in un’ulteriore sostenibilità dell’intervento statale a supporto della domanda aggregata. Gli stati stessi avevano ormai un ruolo predominante nelle varie economie nazionali, anche a causa delle numerose partecipazioni statali nelle imprese.

Con tempi diversi da nazione a nazione, si passò a nuove politiche economiche, dette trickle-down economics. Esse furono più favorevoli ai beneficiari dei profitti e ai datori di lavoro. L’assunto di base era che i margini di profitto più elevati avrebbero indotto gli imprenditori e i dirigenti a lavorare di più e a investire maggiormente in macchinari e capacità produttiva. In questo modo, i ritorni sarebbero ricaduti anche sui lavoratori, sotto forma di tassi di occupazione più elevati e di un maggiore potere d’acquisto. Dunque, tale impostazione profilava un processo di “sgocciolamento”: l’aumento dei profitti avrebbe portato a un circolo virtuoso di maggiore crescita, con beneficiari finali anche i lavoratori a basso reddito.

Nel concreto, ed in generale, le politiche adottate in ossequio a questa nuova tendenza si concentrarono sulla deregolamentazione dei mercati dei beni, del lavoro e, soprattutto, finanziari, così come sulla riduzione della pressione fiscale sulle fasce di reddito più alte.

Tuttavia, l’evidenza empirica recente ci dice che la trickle down economics non è riuscita ad ottenere i risultati sperati. Invece, si è sviluppato uno scenario in cui la crescita economica non è stata alimentata tanto dallo “sgocciolamento” quanto dai saldi positivi delle esportazioni o, in altri casi, dall’aumento dell’indebitamento sia pubblico che privato.

Essendo basato sulla leva del debito, e generativo di squilibri commerciali tra i diversi paesi, questo nuovo ordine economico ha delle basi abbastanza fragili. Ciononostante, esso si è comunque ben sostenuto. Almeno ci è risuscito fintanto che il treno della storia non ha incontrato una curva (in realtà due, nel nostro caso): la crisi finanziaria ed il cambio (?) di paradigma da parte di alcuni paesi.

La prima curva ha rotto la leva del debito a cui famiglie e stati avevano fatto ricorso. La seconda curva ha riguardato quei paesi che si credeva ragionassero in termini di vantaggi economici dati dal libero scambio, ma che invece hanno mantenuto delle logiche di supremazia geo-politica ed economica. Si tratta di paesi (tra cui la Cina) che, da importatori di prodotti a tecnologia avanzata e a valore aggiunto, sono diventati gradualmente esportatori di quegli stessi prodotti, imparando “il mestiere” dai loro vecchi fornitori.

Venuti meno i supporti su cui quell’ordine economico si era sostenuto, esso non è più riuscito a risollevarsi in maniera stabile e solida.

La verità, visti i cambiamenti accaduti negli ultimi vent’anni, è che molto probabilmente sia giunto il momento di applicare nuove prospettive di analisi e interpretazione ad una realtà, quella odierna, molto diversa rispetto a quella degli shock petroliferi.

Come scritto all’inizio, la più recente teoria economica insegna che occorre agire sui salari delle persone per innescare nuova crescita. 

Il meccanismo di trasmissione è abbastanza intuitivo: se aumentano i salari, le aziende investirebbero in maggiore produttività per rispondere a una domanda in crescita. A loro volta, i lavoratori potrebbero essere maggiormente incentivati a partecipare al processo produttivo. A indurre quest’ultimo caso possono essere un incremento della motivazione dei lavoratori o, nei paesi in via di sviluppo, netti miglioramenti delle condizioni di vita.

In realtà, proprio la riflessione sui lavoratori non è nulla di innovativo o di recente: già Adam Smith aveva avuto questa intuizione ne “La Ricchezza delle Nazioni”:

«Where wages are high, we shall always find the workmen more active, diligent, and expeditious, than where they are low».

La via principale, quindi, non sarebbe quella di favorire una generica maggiore produttività: a parità di crescita, essa si risolverebbe solo in un minore assorbimento di manodopera. Invece, sarebbe necessario perseguire una maggiore crescita della domanda, che generi una maggiore crescita della produzione, limitando la fuoriuscita di lavoro dai settori ad alta produttività e facendo crescere anche i settori marginali, i quali finalizzerebbero, a valle, una migliore produttività.

Affinché si possa generare crescita economica, occorre quindi che la produttività risponda in maniera solidale all’aumento di domanda, senza però cadere nella fallace idea di concentrare gli sforzi di efficientamento solo sulle attività economiche più avanzate tecnologicamente. Ci possono essere buone ragioni economiche (e non solo) per prestare particolare attenzione alle sfide tecnologiche, ma altrettanto importanti saranno i miglioramenti delle prestazioni in settore come l’agricoltura, il commercio al dettaglio, l’amministrazione ed i trasporti. In definitiva, un generale aumento della produttività deve essere quindi stimolato dalla situazione dell’economia e dalle richieste di mercato, diffondendosi liberamente grazie alle forze di mercato e alla libera attività di imprenditori motivati a trovare vie innovative per servire una domanda accresciuta dall’innalzamento dei salari. Che sia il caso di cambiare prospettiva anche per l’individuazione dei fattori abilitanti la produttività?

(A cura di Marco Tuttolomondo)