Oltre le Europee e Milei

da | Lug 8, 2024 | Economia

Running from the daylight: scappare dalla luce del giorno. Così recita il ritornello del popolare adagio del cantautore David Kushner. Esso calza a pennello per quanto verificatosi in Italia tra l’8 e il 9 giugno 2024: l’elettorato (quel tapino! quello sciagurato!) ha preferito la marginalità nelle tenebre del socialismo e dei conservatorismi alla centralità nella luce del solco europeo ed europeista!

Drammi scenici a parte, il voto dell’8 e 9 giugno ha sancito la volontà degli elettori di ritirare gran parte della presenza italiana negli unici due gruppi imprescindibili per costruire qualunque maggioranza stabile in Europa: il Partito Popolare Europeo e Renew Europe. Da ora, e per quattro anni, il nostro paese sarà massimamente rappresentato nelle ali più periferiche dello scenario politico europeo contemporaneo. Inutile allargare troppo il discorso sulle forze politiche che si sono imposte, perché a noi interessa la nostra parte, quella dei moderati, riformisti, popolari, radicali e repubblicani: l’ecosistema ideale per far prosperare le istanze liberali.

Molte ipotesi si stanno muovendo sul destino dei partiti delle due liste italiane di Renew Europe che non sono riuscite a raggiungere la soglia di sbarramento del 4% che gli avrebbe consentito di eleggere dei rappresentanti italiani in quella importante e (fa bene ripeterlo) centralissima famiglia politica. Ancora più rumours si stanno avendo intorno al destino dei leader di tali partiti. Per quanto ci siano delle innegabili responsabilità delle dirigenze dei partiti centristi in questa performance elettorale non esaltante, sarebbe riduttivo e poco onesto lasciar cadere l’onta su poche, per quanto decisive, figure. L’obbiettivo di questo articolo è analizzare l’altra faccia della medaglia, cioè le carenze degli attivisti, specialmente quelli liberali, nella costruzione del consenso.

Un’ipotesi di ricostruzione che si sta muovendo da più parti è che potrebbe tornare utile ai partiti d’area una comunicazione più efficace e meno morbida, meno ‘da prima repubblica’. Da parte dei critici si vorrebbe una comunicazione alla Javier Milei, più in grado di smuovere le coscienze e di passare in modo rozzo ma efficace principi e programmi liberali. Pesa su questa proposta anche il buon lavoro svolto da Milei nel tenere a freno per la prima volta da anni l’infernale inflazione che ha attanagliato la sua Argentina. Per quanto fatta in buona fede e nel sincero interesse delle istanze liberali, quest’ipotesi mileista comporta con sé tre gravi lacune.

Anzitutto, un linguaggio simil-mileista si confà poco a un paese strutturalmente piccolo-borghese, conformista, sostanzialmente rurale e inserito nel quadro europeo come l’Italia: il nostro è un paese molto distante dai fratelli di sangue argentini, molto poco inclini al compassato machiavellismo italico e votati, invece, a una gaia estroversione e a una degenerazione picaresca di tutti i vari indirizzi ideologici che, senza particolari successi, si sono avvicendati alla Casa Rosada. L’Argentina è, tristemente, un paese marcescente, incapace, a differenza dell’Italia, di parlare linguaggi politici minimamente evoluti.

In secondo luogo, il mileismo comunicativo non può essere un’opzione per un’area libdem italiana poco capace di convincere delle sue ragioni l’elettorato nostrano perché il liberalismo di Milei è molto semplice da comunicare, in quanto è un libertarismo dai tratti al tempo stesso anarchici e conservatori su una ampia gamma di materie. Un liberalismo, quindi, molto distante dalle esigenze degli italiani, dell’Europa e dalla storia culturale del liberalismo italiano. Proporre quelle idee e quel linguaggio nel panorama attuale ha tanto senso quanto può averne mettersi a vendere pesce all’improvviso in una grande gioielleria. Al di là di quel che in sua coscienza ognuno può pensare delle misure libertarie, esse non sono nella disponibilità della stragrande maggioranza di chi in Italia si richiama al liberalismo e non possono quindi assumere centralità e autosufficienza nel guidare l’articolazione di una proposta politica liberale italiana.

Come una matrioska, questo discorso si può allargare anche al liberalismo stesso nel quadro dell’odierno centrismo italiano. Il liberalismo italiano non è la principale ispirazione e il principale movente né dell’elettorato né della classe dirigente dei partiti centristi che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni e in cui i liberali italiani hanno riposto le loro speranze. Per ottenere qualche spazio e qualche successo tematico ed elettorale e per allargare la propria compagine, i liberali italiani devono rinunciare all’ambizione di guidare il centro in nome di un qualche insindacabile primato morale e intellettuale. Quando si tratta di stilare programmi e di concordare piani operativi nei territori e nelle iniziative varie, i politici e gli attivisti liberali dei vari partiti farebbero bene a preferire la concertazione, e non lo scontro, con gli alleati popolari, radicali, laici e repubblicani.

Il terzo motivo per cui nessuna parte del mileismo può essere applicata in Italia è che il linguaggio populista non è solo una forma comunicativa, ma anche un metodo politico. In quanto tale, esso incide profondamente sulla natura stessa dell’ascolto e del linguaggio degli elettori. Portare sempre più in basso il livello della comunicazione elettorale vuol dire scommettere attivamente sul deperimento del tessuto sociale e culturale dei cittadini. Se si è liberali, si crede negli individui e nelle loro qualità comportamentali, spirituali, relazionali e intellettive, cioè nella loro humanitas: puntare al mileismo comunicativo vuol dire sconfessare questo elemento fondante e necessario del liberalismo democratico.

È ormai evidente che le tentazioni mileiste, così come altre idee in campo per dare slancio al liberalismo in Italia, siano il segno di una grande confusione degli attivisti liberali del Bel Paese, soprattutto quelli giovani. Essi preferiscono sempre più spesso confinarsi in un atteggiamento di sprezzante superiorità rispetto alla media dei propri connazionali, come fatto scanzonatamente all’inizio di questo articolo. Capita sovente di sentire militanti liberali asserire che l’elettorato – ormai irrecuperabile ai sani principi della democrazia liberale, dell’Europa e del libero mercato – sia poco sveglio (eufemismo), in quanto non vota secondo i loro desiderata.

La domanda da porsi è: soprattutto alla luce di una chiara e diffusa fascinazione mileista, siamo così meglio degli elettori e dei militanti leghisti, ultraconservatori e delle sinistre? Vi è una superiorità culturale, neurale e antropologica insita nel simpatizzare per Milei anziché per Salvini, Conte, Bolsonaro o Tsipras?  Si può essere certi che i liberali italiani siano talemente superiori a tutti gli altri italiani da poterglielo spiattellare in faccia con superba alterigia?

Appare chiaro che serve un cambio di metodo: il modus operandi dei militanti liberali è un problema ben più grave e persistente di quei leader centristi che essi bramerebbero di abbattere. Spesso incapaci di imporre la propria visione in contesti più ampi del loro ego e di garantire un’immagine stabile dell’area politica di riferimento per la loro pigrizia intellettualistica e letargica e per i loro quasi annuali cambi di casacca dovuti a distanze programmatiche spesso risibili dal proprio riferimento passeggero riferimento partitico, moltissimi militanti liberali (tra cui chi scrive) devono rendersi conto di essere loro e soltanto loro il tessuto connettivo tra i cittadini, i territori e i partiti.

Per questo motivo, che i giovani e ruspanti militanti liberali pieni di idee inizino a lavorare e a dimostrare la propria affidabilità nelle parrocchie, nelle associazioni di categoria, nei refettori, negli enti benefici, nella politica universitaria, nelle pro loco, nei forum dei giovani, nelle elezioni dei comuni di appartenenza, piccoli o grandi che siano, anche da ospiti di liste civiche, qualora i partiti d’area non abbiano ancora la forza di manifestarsi in quel preciso luogo e momento. Che si mostrino bravi quanto, se non più, gli altri e più affermati giovani e meno giovani attivisti conservatori, leghisti, forzisti, dem e comunisti.

Bisogna vivere tra le persone, mostrare, con umiltà e fermezza allo stesso tempo, che il proprio liberalismo funziona nei fatti, che esso è credibile, applicabile e funzionante nell’ordinaria amministrazione. A poco serve, invece, continuare ancora atteggiarsi a maestrini di un popolo ignorante, mostrandosi ferventi missionari del vangelo di Rothbard, Locke o Einaudi presso quei poveri analfabeti statalisti che non sanno come votare e che non colgono il grande disegno e i massimi sistemi. Se si vorrà andare a reclamare un cambio delle leadership autrici della disastrosa performance centrista alle europee, sarà bene che i militanti liberali italiani lavorino per presentarsi ai congressi di partito prima delle prossime legislative sia con almeno 100 tessere e 300 voti a testa che con l’umiltà di stare uniti assieme, senza i soliti deliri napoleonici di onnipotenza. Se ci si presenterà in queste condizioni a quell’appuntamento, ci sarà speranza di cambiamento: adesso, invece, ogni aspirazione a repentini cambi di rotta coniuga l’elitario al velleitario. Non c’è Messia argentino che tenga.

(A cura di Gennaro Romano)